Non ce l’ha ordinato il dottore di fare Teatro.

Una riflessione sulle “crocerossine dell’arte”


di Giorgio Latini

Tre premesse doverose.

Sono stati mesi difficili per tutti e soprattutto sono stati mesi di grandi polemiche perciò cercherò di evitare le più scontate, non tanto perché non le condivida ma perché ne avrete letto fino alla nausea.

Altra cosa da precisare è che molti colleghi con cui ho avuto la possibilità di parlare nei suddetti mesi sicuramente già sapranno che la mia posizione personale è sempre stata di confrontarci non solo col mondo dello spettacolo, ma anche con altre realtà imprenditoriali e produttive (sì imprenditoriali e produttive, con buona pace di chi vorrebbe relegare il Teatro alla sola, seppur primaria, funzione sociale) e quindi senza voler dare scandalo agli occhi di nessuno mi sento in dovere di avvisare che in questo “articolo di opinione” si parlerà di teatro come impresa.

Premetto anche che ho riletto molti articoli, editoriali, post, tweet, opinioni, interviste, chiacchiere da bar che sono circolate in questi mesi e sono rimasto sconvolto da quanto anacronistiche, superate e banali le abbia trovate. Non per mancanza di arguzia degli autori, ma più che altro per una situazione in continua evoluzione che lascia gli elementi da commentare come una materia liquida difficilmente incasellabile.

Tutto questo per dire che non c’è alcuna intenzione di pontificare, non ho l’esperienza necessaria per farlo, ma solo di esprimere un’opinione.
Io stesso immagino che queste parole, per quanto al momento in cui scrivo le possa ritenere universali e intramontabili, ad una seconda lettura tra qualche settimana risulteranno superate ed anacronistiche.
Passiamo al cuore della faccenda.

NESSUNO CI IMPONE DI FARE TEATRO. IL TEATRO NON È UN BENE NECESSARIO.

Ciò non tolga che sia utile, che faccia bene, che svegli le coscienze che l’arte abbia tenuto compagnia a moltissime persone in questi mesi difficili.
Ma pensarlo come necessario è ciò che ha impedito per tutti questi anni alla nostra categoria (e qui parlo nello specifico degli attori) di diventare una vera categoria.

La prendo alla larga: mia cognata ha un materasso di lana degli anni 60 che ciclicamente necessita di essere cardato. Mi è capitato di dormirci (con mia moglie non con mia cognata): sembra di sdraiarsi su una piastra ondulata di ghisa, eppure per mia cognata è un bene necessario e irrinunciabile. Ora, immaginate per un attimo di essere la persona che materialmente carda quel materasso, di essere un imprenditore del cardatura della lana. Secondo voi come è organizzata la vostra attività? Quanti materassi carderete in un anno? Quante persone riterranno un lusso irrinunciabile il piacere di sdraiarsi su una zattera di tubi innocenti? Suppongo non molti.

Questo implica che per vivere cardando la lana avrete 3 opzioni:
a) Trattare la cardatura come un’attività minoritaria e avere altre entrate.
b) Trovarsi in un regime di concorrenza molto basso o di quasi monopolio.
c) Proporlo come servizio di lusso e farlo pagare cifre esorbitanti.

Immagino che molti di voi abbiano già capito dove voglio andare a parare. Già prima del corona virus fare l’attore rientrava in una di queste tre categorie.
a) Si avevano altre entrate (da ballerino, insegnante, regista, tecnico, fonico, videomaker, bigliettaio, cameriere, operaio, tabaccaio, direttore di b&b, sublocatore di stanze già in affitto, broker finanziario, rampollo di ricca famiglia e chi più ne ha più ne metta).
b) Si entrava in un “giro giusto” abbattendo a tutti gli effetti la concorrenza del 95% perché “i provini nessun regista ha più tempo di farli” “e allora perché non chiamare un attore che conosco con cui magari ho già lavorato e che più di una volta è anche bravo?”

Perdonerete un po’ di polemica becera e sterile, non ho resistito a farla.

c) Si lavorava in un contesto in cui i soldi che girano sono talmente tanti che tutti i lavoratori possono essere pagati più che bene (e qui purtroppo temo che dovremo guardare lontano dal teatro, salvo i cachet dei primi attori che portano in giro lo spettacolo perché il loro nome è a tutti gli effetti ciò che fa vendere lo spettacolo.)

Inutile dire che la maggior parte di noi navigava nella zona “a”.

E tutto questo ante covid.
A mio parere il corona virus non ha cambiato nulla di quello che c’era prima, ha semplicemente acuito la situazione esistente.
Per la categoria “b” e la categoria “c” i problemi esisteranno lo stesso ma saranno mitigati dalla presenza dello stato. Nonostante ciò, purtroppo, molti attori che fanno parte di questi due gruppi scivoleranno nella categoria “a” dove ci sarà la vera giungla.

Facendo leva sulla nostra voglia di fare, comincerà la fase dello spettacolo ad ogni costo e non sto parlando della definitiva consacrazione dello spettacolo fuffa, parentesi che non mi sento di aprire perché sarebbe come scoperchiare il vaso di pandora, ma dello spettacolo di volontariato.

Dato che il teatro (maledizione!) è anche un servizio sociale, spesso anche per gli attori stessi (maledizione!) e siamo già abituati a sentirci in colpa di esistere (maledizione!) cominceremo a salire sul palco per volontariato. E allora lì sì che l’arcinota questione “Ah fai l’attore? Ma di lavoro che fai?” diventerà un’amara realtà. Perché come per i raccoglitori di pomodori, se non posso tagliare su tasse, spese vive, acqua, diserbanti, l’unico taglio possibile è sulla manodopera. Basta trovare la persona più disperata (o a volte nel nostro caso più ricca) che venga a lavorare per volontariato.

Ecco mi piacerebbe tanto che invece di sentire tante idee rivoluzionarie di monologhi, mascherine, guanti, streaming, teatro a domicilio ci fosse una volta tanto una bella corrente REAZIONARIA. Perché se il covid ha semplicemente accelerato un procedimento in essere, forse la soluzione non è di trovare un modo di andare avanti, ma di tornare indietro.

Nell’attesa che le norme di metà luglio sconvolgano di nuovo la situazione e rendano queste righe una sequela di baggianate superate.


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